Recensione: Eric Clapton - I Still Do (2016)

Non è mai facile per me avvicinarmi a una nuova uscita di Eric Clapton; come penso molti altri, mi sono avvicinato alla chitarra rapito dai solo blues dei Slowhand, ricordo che mi decisi ad acquistare la mia prima chitarra elettrica dopo aver ascoltato e riascoltato un best of di Clapton intitolato Stages, che mischiava pezzi del periodo Yardbirds, di quello con Mayall, dei Cream, Derek & The Dominos con alcuni da solista. Ed è proprio il Clapton solista quello che non mi ha mai convinto appieno; già, perché non ho mai condiviso la sua scelta di passare dal furente hard blues degli esordi a quello stile rilassato da sole della California, che ibridava J.J.Cale con pop e Caraibi, fino al fondo toccato con certi sciagurati episodi degli anni '80, targati Phil Collins (leggi, August).
Il Clapton degli ultimi anni, poi, nonostante l'affetto per il suo glorioso passato (Clapton is God, scrisse qualcuno sui muri...), e la sua inalterata statura di musicista sopraffino, più volte mi ha portato alla fatidica domanda, ovvero: "È proprio necessario annacquare una discografia a larghi tratti leggendaria, con nuovi sciapiti episodi tutti uguali?"
Quindi, questo nuovo I Still Do, dal titolo tristemente programmatico, dove si colloca? Be' dipende molto dall'approccio di chi ascolta; infatti siamo di fronte a un lavoro molto raffinato, suonato benissimo e cantato ancor meglio, perché, va detto, se c'è una cosa in cui il buon Eric è costantemente migliorato negli anni, è proprio la voce. Il problema sorge se andiamo a mettere in prospettiva l'album con l'intera discografia: I Still Do è l'ennesima copia di quanto già fatto, e l'ascoltatore che non ha nel chitarrista di Ripley il suo idolo, non può che divertirsi adattando il vecchio gioco enigmistico "trova le differenze" al contesto. E così si parte con Alabama Woman Blues, perfetta rilettura di uno standard di Scrapper Blackwell e Leroy Carr, con la slide di Clapton che riluce a dovere; peccato che si stenti a trovare la differenza con le altre decine di pezzi di slide blues incisi degli anni, ma si sa, il blues è questo, prendere o lasciare. E lo stesso vale per la bella Cypress Grove, mutuata dal grande Skip James, e Stones In My Passway, uno dei pochi brani di Robert Johnson non ancora coverizzati dal nostro. Can't Let You Do It è invece il solito omaggio a J.J. Cale, apprezzabile ma non al livello di altri, più riusciti, tributi, vedi Cocaine. Lo stesso dicasi per Somebody's Knocking, altro tributo a Cale. I Dreamed Saw I St. Augustine è invece un omaggio al Dylan meno conosciuto, riuscito a metà. I veri guai iniziano con i brani inediti, tutti all'insegna di quel soul pop sbiadito che contraddistingue Clapton ormai da troppo tempo. Veramente qui c'è poco da salvare, eccetto forse Spiral, penalizzata da un riff troppo blando ma che svetta per energia e per un suono saturo della chitarra, anche se lontano dai bei tempi. 
Tirando le somme, un album che passerà, forse giustamente, inosservato presso chi cerca innovazione anche nel rock, ma che rischia di scontentare, nonostante qualche progresso dall'ultimo Old Socks, anche i fan della prima ora del buon vecchio Slowhand.  

Voto: 5

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