Recensione: Brutus - Wandering Blind (2016)



Quest'oggi ci addentriamo di nuovo in territori oscuri quanto ben conosciuti, almeno su queste pagine: quelli del rock blues suonato come se gli ultimi quarant'anni fossero passati invano. Cosa, peraltro, di cui sono assolutamente convinto. E ne sono convinti anche i Brutus, ennesima band che proviene dal freddo nord, da Oslo, Norvegia, per la precisione, anche se la metà del gruppo è composta da musicisti svedesi. C'è una distinzione da fare con i soliti Graveyard, Witchcraft e compagnia suonante, e cioè che, se i primi suonano ispirandosi agli anni '70, i Brutus vivono proprio negli anni '70, rifiutano qualsiasi compromesso a livello di registrazioni e strumentazioni, tanto che per Wandering Blind sono rimasti in studio solo per quattro giorni di registrazioni praticamente live, e si sente in alcuni passaggi del disco abbastanza avventurosi. Detto questo è pur vero che Graveyard e Witchcraft sono stati per i Brutus e tutta la scena rock blues scandinava un po' quello che furono Alexis Korner e John Mayall per tutto il nascente movimento British Blues e Hard Rock nell'Inghilterra degli anni '60.
Ma parliamo un po' dell'album, loro terzo lavoro dal 2010, molto più vicino al blues che non al doom rispetto alle band ispiratrici già citate, e questo non può che farmeli amare ulteriormente; a partire dall'iniziale title track, ci troviamo subito di fronte a un rock blues robustissimo, senza fronzoli, basato su riff abbastanza tradizionali che si innestano su una ritmica palesemente blues, anche se molto accelerata. Il cantato di Nils Joakim Stenby ricorda molto da vicino il giovane Ozzy Osbourne, tra l'altro suo idolo, anche se il fatto di cantare costantemente un'ottava sopra potrebbe a tratti risultare stridente. Ancora riff pesanti, di matrice assolutamente Free (il gruppo anni '70 di Paul Kossoff) e con qualche rimando ai Leaf Hound e ai Black Cat Bone, in Drowning e Blind Village, mentre un pezzo come The Killer rimanda direttamente alla stupenda Goin' Down To Mexico dei primi ZZTop, stupenda. Si frena un po' in Axe Man, che resuscita una bella melodia da southern rock, e in due bellissimi lentoni blues come Whirlwind Of Madness e My Lonely Room, con tanto di mega assolo con wah wah.
Il dilemma rimane sempre il medesimo, rifugiarsi senza indugio in un sound che ha già detto tutto, ma che rimane quanto di più piacevole si possa ascoltare oggi, o intestardirsi a considerare il nuovo rock una mistura di suoni che col rock nulla hanno a che spartire?
La mia risposta è: Brutus!

Voto: 8

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