R.I.P. Lemmy Kilmister

Accendere il PC per il rito mattutino della connessione al Dio internet, che tutto sa e che tutto gestisce, l'ultimo rito religioso rimasto, e scoprire che un altro pezzo di quel mondo che non esiste più, ma a cui ostinatamente ci voltiamo a guardare, se n'è andato. Sì, perché Lemmy ha attraversato quasi cinquant'anni di storia del rock, vivendo tante vite diverse, eppure rimanendo sempre uguale a sé stesso; una figura rassicurante, tutto sommato, dietro ai suoi eccessi, alle sue svastiche e a tutto l'immaginario del "rock 'til i drop". Dagli esordi come "roadie" di Jimi Hendrix, alla psichedelia dei Sam Gopal, dallo space rock degli Hawkwind fino alla band che gli avrebbe conferito lo status di icona, i Motorhead, Lemmy ha incarnato tutti gli aspetti del rocker duro e puro. Personalmente l'ho molto ammirato specialmente negli ultimi anni, per il modo di pestare ancora duro sul pedale dell'acceleratore coi suoi fidati Motorhead, sfornando dischi che nulla avevano da invidiare a quelli dei tempi d'oro, al contrario di tante vecchie rockstar, imbolsite e appesantite da anni di lussi e eccessi, lì a barcamenarsi tra liti coi vecchi compagni e scialbe reunion dettate solo dalla volontà di fare un po' di cassa. Se n'è andato così, da un giorno all'altro, Lemmy; del resto, difficilmente l'avrei immaginato in giacca e cravatta a collezionare auto d'epoca come un Nick Mason, o a organizzare festival volti a combattere l'alcol ai Caraibi, come un Eric Clapton. Meglio così, forse.

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